Quel meraviglioso puzzle chiamato Giappone

di Matteo Barreca

 

Vorrei poter descrivere con le giuste parole le sensazioni che questo viaggio nell’arcipelago giapponese ha scolpito per sempre nel mio animo. Le strade, le case, i templi, i grattacieli, gli stagni, la luce, i suoni, i gusti, i riflessi, i tramonti, le persone, la natura. Sono cose che non potrò mai dimenticare. Ogni giorno si ha la sensazione di scoprire e capire un nuovo pezzo di quel variopinto puzzle; è nuova infanzia, una seconda chance per rimparare a decodificare il mondo. Inizi comunicando a gesti e poi con qualche strano suono provi a interagire utilizzando le mani e le espressioni del volto: non c’è comprensione soltanto intesa. Chissà come, ma impari molto più che in una vita di discorsi.

È una cultura che dalle contraddizioni nasce e delle contraddizioni si alimenta. Le città ne sono l’esperimento più riuscito. Esilissime torri si alternano a minuscoli edifici, contenitori di persone e di sapori. Dozzine di città in una sola, impossibile conoscerle tutte e farne una sintesi. Sono città Stato, avviene tutto qui. Anche la natura si nasconde tra il cemento, un santuario shintoista per una sentita preghiera ed un momento intimo al riparo dai clacson e dalla frenesia dei passanti. Le città senza un centro si avvolgono intorno ai centri di trasporto: le migliori vetrine per vendere, per poter dimostrare la propria esistenza, anche quando la merce sei tu. Devi accettare il fatto che la maggior parte di queste città siano brutte, necessariamente brutte. Se così non fosse, non potrebbero brillare le gemme disseminate qua e là.

La dimensione del corpo umano è del tutto indifferente alla dimensione della città, quel salto di scala democratico che rende tutti importanti e nessuno indispensabile. Tuttavia, nell’occhio del ciclone di questi uragani di energia puoi ritrovare quasi sempre la quiete. Il rapporto con la natura è spiazzante, dominata e sottomessa da un lato ma in perfetta armonia con l’architettura e la vita dall’altro. Nella natura si ritrova il sacro, gli spiriti si tengono alla larga dai luoghi protetti e preferiscono i lampioni gelidi alle calde e vibranti lanterne. In questi luoghi la luce si diffonde in spazi che con la natura si fondono, non hanno confini certi, vibrano al ritmo delle stagioni. Un tetto ed un pavimento sono l’essenziale, la luce divide i due mondi e sfumando li fonde.

Il suono di un ruscello e il cicalio della campagna ti accompagnano in ogni momento, gli alberi sono liberi di crescere ed estendersi nella direzione prediletta, si sostengono e si aiutano a crescere secondo la loro natura. I fili d’erba hanno tutti pari dignità, sono curati ad uno ad uno secondo l’altezza che si meritano. La linea curva è preferita a quella retta, il divino domina l’umano. Quelle travi dolcemente incurvate disegnano teli di ceramica, ogni pezzo precisamente incastrato e sagomato nel suo complementare non lascia spazio ad alcun dubbio. Il legno così vivo ci ricorda che non esiste nulla di permanente e che la cura deve essere costante e quotidiana, lo scricchiolio del tavolato è come un gemito di dolore causato dai nostri passi.

Le chiavi sono la cura e la dedizione con le quali si eseguono tutti i gesti della vita: tratteggiare segni perfetti con un solo movimento di mano, servire il te in una naturale armonia di atti ed espressioni, sfilettare con lame scintillanti, danzare secondo passi misurati. Mi è chiarissimo ora come possano costruire muri di pietra dalle proprietà di un diamante. Quando accetti la caducità della vita, ci metti tutto te stesso nella cura di ciò che ti circonda. Quanto orgoglio nel fare parte di tutto ciò! Secoli di tradizioni e cultura hanno creato un popolo fiero di samurai che combattono quotidianamente per portare sulle spalle tutto quel peso. Mi auguro ci sia ancora domani qualcuno pronto ad indossare quell’armatura.

A presto,

さような

Matteo Barreca, architetto e ingegnere

 

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