L’India e il suo desiderio di architettura – Ahmedabad

di Danilo Sergiampietri

 

I do not want my house to be walled in on all sides and my windows to be stuffed. I want the culture of all lands to be blown about my house as freely as possible.”

Non voglio che la mia casa sia murata su tutti i lati e le mie finestre sigillate. Voglio che le culture di tutti i paesi soffino attorno alla mia casa con la massima libertà possibile.”

Questa frase di Gandhi, di vago respiro Dylaniano, ci dà il benvenuto all’ingresso del Mahatma Gandhi Memorial Museum di Ahmedabad, costruito nel luogo dove Gandhi ha vissuto dal 1917 al 1930. Il museo è una delle prime realizzazioni di Charles Correa, uno dei più noti architetti indiani a livello internazionale, ed è stato terminato nel 1963. E’ un complesso realizzato con un linguaggio piuttosto semplice, che Gandhi avrebbe sicuramente approvato, basato su una serie di piccoli padiglioni ad un solo piano alternati a corti verdi e vasche d’acqua, il tutto organizzato su una rigorosa e simbolica griglia quadrata. L’evidenza data al sistema di regimazione delle acque, dai doccioni alle vasche di raccolta, già ricordano Le Corbusier visto a Chandigarh.

Il museo si può girare liberamente, senza un percorso prestabilito, piano piano mi accorgo dell’alta qualità del progetto e dei materiali, dei dettagli semplici ma efficaci e rigorosi. L’aspetto più sorprendente è però il fatto che in tutto il complesso non esista uno spazio chiuso, non esista una finestra, un vetro che distingua il dentro dal fuori, che possa impedire al vento di soffiare liberamente. Una porzione di ogni parete è occupata da un sistema di lamelle frangisole orizzontali in legno che possono essere liberamente manovrate a mano per gestire la quantità di luce ed aria desiderati. Tutto qui. In un paese con un clima estremo come l’India c’è chi, coraggiosamente, propone che con un clima così si può anche convivere. Correa diceva: “La forma segue il clima”.

Tutto questo stride apertamente con quanto si vede in giro per le città, tappezzate da migliaia di unità esterne per i condizionatori, e soprattutto con il modo di vivere che ci impongono nei grandi hotel internazionali dove dormiamo, torri tecnologiche dove le finestre apribili sono state definitivamente bandite in cambio di un sistema di condizionamento estremo che obbliga a dormire tutto l’anno sotto a piumini da paesi nordici quando fuori, a metà ottobre, ci sono ancora 35 gradi.

Le Corbusier ha costruito quattro edifici ad Ahmedabad, tre ville ed un museo. Non tutto è in buono stato di conservazione e non tutto è visitabile per il semplice motivo che i proprietari non vogliono turisti in casa.

Villa Sarabhai è immersa in un parco che a noi sembra la giungla ed entra a far parte della natura con i suoi interni che sembrano grotte per la sequenza delle volte a botte ribassate in mattoni, i suoi tetti verdi da cui si può scivolare direttamente in piscina. In questo caso, un’architettura da vivere più che da guardare.

Villa Shodhan la possiamo solo vedere da fuori, è tutta in cemento armato, un complesso meccanismo di filtrazione e riparo dai raggi solari e di facilitazione della circolazione dell’aria che avrebbe bisogno di più manutenzione.

Il concetto del Palazzo dell’Associazione dei Produttori Tessili è simile a quello di villa Shodhan ma in questo caso l’edificio può essere visitato e fotografato anche all’interno con più calma. Come tutte le Unité d’Habitation europee, che diventano quasi bussole territoriali, anche questo edificio è orientato esattamente nord-sud a prescindere dal contesto. I fronti nord e sud sono quasi ciechi e rivestiti in mattoni, i fronti est ed ovest sono caratterizzati dalla presenza di frangisole in cemento armato, sottilissimi.

Il sistema dei frangisole permette, in questo caso, anche di alloggiare vasche di verde, il verde qui cresce molto facilmente e questi due prospetti diventano quello che oggi qualcuno chiamerebbe Bosco Verticale. La differenza tra interno ed esterno quasi non esiste, tutto lo spazio è fluido e dinamico, viene voglia di fare i complimenti all’Architetto ma anche al committente, tutto è sperimentale, simbolico e rappresentativo, gli spazi effettivamente utilizzabili non sono molti.

Prima Le Corbusier e poi i suoi “seguaci” indiani, Correa, Doshi, ma anche più recentemente RMA Architects hanno provato, o stanno provando, a realizzare architetture aperte, in diretta simbiosi con l’esterno, il clima, il sole e le stagioni. Questa architettura può fare a meno di tutta la sovrastruttura tecnica e tecnologica che affrontiamo quotidianamente nel nostro lavoro. Non servono isolanti, coibentazioni, cappotti e rivestimenti. Non esistono i ponti termici. Non esistono tutti gli ormai eccessivamente ingombranti impianti per il trattamento dell’aria, riscaldamento, raffrescamento, ricambio. Ad integrare il naturale fluire dell’aria spesso basta un vecchio ventilatore a pale da soffitto. Sono, per loro stessa natura, edifici NZEB, ovvero richiedono una quantità minima di energia per funzionare.

Tutto questo riporta l’Architettura alla sua essenzialità, alla sua verità, quasi scultorea. I materiali sono quello che sono, il cemento armato faccia a vista si può far vedere senza paura dei ponti termici, il muro in mattoni è vero muro in mattoni, così come la pietra, il marmo, il legno, il ferro. A prescindere da una sostanziale diversità climatica, è un’architettura per noi occidentali ormai irrealizzabile, quasi nostalgica, ma vederla e viverla fa pensare che forse c’è un’alternativa ecologica e tecnologica a quello che stiamo facendo.

Arch. Danilo Sergiampietri

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