CoopHimmelb(l)au a Lione
e una vecchia idea di architettura
ormai dimenticata
di Danilo Sergiampietri
Quella di Venezia è la Biennale d’Arte Contemporanea più importante ma non è l’unica, ce ne sono molte altre e tra quelle più significative c’è quella di Lione. Ogni due anni è quindi d’obbligo andare anche a Lione, cosa che dal punto di vista gastronomico non dispiace affatto, visto che la città francese è tra le capitali mondiali dell’alta cucina.
Come in molte altre città europee, a Lione è in corso una riconversione urbana che punta alla valorizzazione culturale di aree industriali dismesse o periferiche, con la creazione di nuovi spazi aggregativi, museali e una visione sperimentale dell’architettura contemporanea che è vista anche come potenziale motivo di richiamo per un turismo culturale colto.
Ci sono un intero quartiere di Renzo Piano, due colorate architetture di Jacob + MacFarlane e molto altro, ma l’edificio più rappresentativo di questo rinascimento urbano è certamente il “Musée des Confluences”, uno spazio multifunzionale contenente anche un innovativo museo scientifico, realizzato dallo storico studio di architettura austriaco CoopHimmelb(l)au proprio alla “confluenza” dei due fiumi che attraversano la città.
L’edificio è un enorme volume dall’aspetto vagamente zoomorfo che si staglia come un relitto decostruito sulle sponde dei due fiumi.
La zona basamentale contiene gli auditorium, quella in vetro e acciaio, detta il “cristallo”, è il grande spazio di accoglienza dei visitatori del museo, lo spazio sospeso rivestito in pannelli metallici, la “nuvola”, è lo spazio dedicato al museo vero e proprio. Le funzioni ospitate dal complesso sono tante ma, come spesso succede per edifici di questo livello, il vero interesse della visita è l’architettura stessa: percorrere le rampe interne del “cristallo”, salire sul tetto panoramico, passare sotto alla “nuvola”, toccare materiali, guardare dettagli e capire come diavolo si possano costruire edifici così complessi, farli funzionare e farli durare nel tempo.
Verso la fine degli anni ’80 del secolo scorso si sono iniziate a vedere sulla riviste di architettura (a quel tempo divorate in numero esagerato dai giovani architetti, visto che non c’era ancora Internet) alcune realizzazioni che utilizzavano un linguaggio completamente diverso da tutto il resto. Una di queste, me lo ricordo benissimo, è stato un tetto a Vienna trasformato da CoopHimmelb(l)au in una nuvola sfaccettata di acciaio e vetro. Era una delle prime volte in cui si vedevano realizzate le teorie decostruttiviste che, sino ad allora, sembrava potessero vivere solo sulla carta.
Eravamo un gruppo di tre giovani architetti, molto bravi e presuntuosi, che pensavano di cambiare il mondo, già assistenti universitari e pluripremiati ad ogni concorso che riuscivamo a fare. Avevamo però studiato negli anni ’80, in pieno periodo postmoderno, ed eravamo molto legati a certi meccanismi progettuali quali la serialità, la matericità, il rigore delle forme, la simmetria, il recupero di alcuni elementi della tradizione.
Davanti a quelle prime forme decostruite ci siamo chiesti cosa fare e la risposta unanime è stata quella di andare certamente avanti per la nostra strada rigorosa. Di lì a poco il Postmoderno è scomparso da ogni radar e l’architetto che molti di noi avevano come riferimento, James Stirling, credo che gli studenti di adesso non sappiano nemmeno che sia esistito.
A distanza di trent’anni da allora, visitando questo splendido edificio di CoopHimmelb(l)au a Lione, mi chiedo se non potevamo essere più aperti.
Queste forme flessibili, relative, dinamiche, al di là della indubbia difficoltà tecnica di realizzazione e manutenzione, rappresentano in modo efficace la realtà complessa in cui viviamo.