Solid Water. Le dighe portuali come architetture tra terra e mare

Le dighe portuali sono prima di tutto architetture che rispondono a regole imposte dall’ingegneria marittima, dall’idraulica e dalla navigazione. Architetture che hanno generato le trasformazioni dei più importanti porti del mondo e lo sviluppo urbanistico delle loro città. Ce le racconta Beatrice Moretti, ricercatrice e docente presso il Dipartimento Architettura e Design dell’Università di Genova.

di Beatrice Moretti

Costruite nei porti di tutto il mondo almeno dal Settecento, le dighe portuali sono architetture eccezionali che si estendono tra terra e mare e si immergono in profondità instaurando un rapporto verticale inedito con i fondali marini e l’elemento acqueo. Le loro geometrie rispondono, come ogni dispositivo portuale, a regole operative imposte in questo caso dall’ingegneria marittima, dall’idraulica e dalla navigazione.

È spesso dall’impostazione di una grande diga che hanno avuto origine le trasformazioni dei più importanti porti del mondo. Allo stesso tempo è dall’espansione di un porto, resa possibile da nuove opere di protezione in mare, che le città collegate all’infrastruttura portuale si sono sviluppate in estensione, funzionalità e bellezza.
A Genova recentemente, così come nel 1876 in occasione della costruzione del Molo Duca di Galliera, che diede inizio a un secolo di interventi e pose le basi della moderna città portuale, sono in corso i lavori per la realizzazione di una nuova opera di protezione a mare che in tre anni dovrebbe essere in grado di proteggere oltre 6 km di costa e di ampliare il bacino portuale di oltre 200 m rispetto allo stato attuale.

Il corso “Solid Water. Port Dams as Land-Sea Architectures and Settlements”, che ho svolto con la codocenza dell’architetto Matteo Vianello nell’anno accademico 2023/2024 presso il Dipartimento Architettura e Design dell’Università di Genova nell’ambito del corso Coastal Design and Other Extreme Environments, si è proposto di ragionare sull’idea che le grandi infrastrutture operative, come le dighe portuali, rispondono a regole di formazione spaziale diverse da quelle degli artefatti terrestri. In questo senso, le dighe possono essere riconosciute non solo come semplici dispositivi funzionali, ma come architetture in grado di accogliere, includere e innescare attività estreme e complesse.

Foto di Matilde Ridella

Per l’impostazione metodologica del corso sono stati individuati due punti di partenza.
In primo luogo ci si è domandati: quale tipo di urbanizzazione regola il mare e gli oceani?

Gli approcci architettonici e urbanistici alla comprensione delle infrastrutture portuali – come moli, banchine commerciali, piattaforme tecniche e dighe portuali – sono storicamente caratterizzati da una prospettiva incentrata sulla terraferma. Per secoli, lo spazio del mare è stato inteso da un lato come un deserto, un luogo vuoto, dall’altro come una superficie politicamente rivendicabile da occupare, come una terraferma stabile e solida.
Tuttavia, guardare al mare oggi come a un spazio ininterrotto interessato dall’urbanizzazione innesca un’inversione di questa idea comune, attivando una visione in grado di attribuire nuovi significati alla trasformazione dell’ambiente marino e dei suoi principali insediamenti e architetture operative.

In secondo luogo, e in linea con diversi studi contemporanei in materia, si è scelto di considerare le dighe come architetture off-shore.

L’oceano è da decenni diventato un sito di convergenza spaziale e ambientale, una sorta di “hinterland liquido” dei territori urbanizzati, mentre l’urbano è diventato più diffuso e poroso.
Quando sono stati stabiliti dei confini nell’oceano, il risultato non sono stati spazi di insediamento umano, ma piuttosto spazi specializzati con una serie di scopi – sia produttivi che protettivi – consentiti per periodi di tempo limitati.
Il progetto degli spazi marini implica una tensione tra fissità e fluidità, evidenziando una qualità ricorrente di questi spazi che la studiosa Nancy Couling ha definito nel 2020 lack of settlement.  Questa “mancanza di insediamento” qualifica gli spazi come paesaggi monofunzionali, semi-industriali o aree protette per la presenza di importanti ecosistemi.

Da questi punti di partenza metodologici, il corso “Solid Water” ha scelto come caso di studio e di applicazione l’infrastruttura più estrema legata al funzionamento delle coste e dei porti operativi, le dighe portuali, ovvero i massicci muri che, posizionati al largo della costa in mare aperto, proteggono le terre dall’essere coperte o danneggiate dal mare o difendono un porto dall’azione di onde potenti.

Le dighe sono oggetti architettonici. Ridefiniscono i limiti e le prospettive di mare e terra spostando il campo d’azione di diverse centinaia di metri verso il mare. Sono al tempo stesso regolatori e abilitatori del territorio, aprendo nel contesto contemporaneo a progetti capaci di incorporare funzioni operative con attività urbane sotto forma di architetture anfibie, avamposti temporanei, insediamenti remoti.

I progetti del corso “Solid Water” si sono focalizzati su tre dighe esistenti in Europa: la diga di La Spezia, la diga di Genova (nella sua porzione più a levante, non interessata dal progetto di espansione) e la Maeslantkering, una diga metallica mobile realizzata nel 1997 nell’ambito dei Delta Works all’imboccatura del Nieuwe Waterweg, ramo artificiale del delta della Mosa, principale via di accesso al grande porto di Rotterdam.

I tre contesti portuali sono stati oggetto di studi e approfondimenti da parte degli studenti per evidenziarne criticità e potenzialità in relazione alla presenza della grande diga. A livello di sperimentazione progettuale, ad ogni studente è stato richiesto di incorporare una o più attività urbane di natura pubblica (ma non abitativa) sulla struttura della diga apportando aggiunte plastiche e morfologiche, demolizioni, sostituzioni alla sua volumetria, non compromettendone la funzionalità di frangiflutti protettivo, e lavorando sull’accessibilità, la sicurezza e l’impatto visivo da e verso il mare.
Particolare attenzione andava posta a temi quali la temporaneità, la stagionalità, il clima, i flussi umani e non umani e la variabilità degli ecosistemi marini. Il tema della costruzione sull’acqua, spesso in mare aperto in condizioni estreme, doveva essere affrontato come fattore primario del progetto e non come limite.

Il progetto sulla diga di La Spezia prendeva in considerazione aspetti ambientali e culturali legati alle diverse funzionalità che gravitano da decenni intorno a questa infrastruttura di protezione. Posta a chiusura del profondo golfo della città, la massicciata è stata meta di gite domenicali, impiegata per la balneazione e il tragitto di piccole imbarcazioni private. La diga ospita, nel suo specchio interno, vivai di mitili e alcuni manufatti in abbandono, quali la palafitta in cemento armato denominata “casa matta”. Sul fronte esterno delle diga, in mare aperto, si può ancora oggi osservare il relitto della Margaret, nave Georgiana di 84 metri affondata nel 2005.
In questo contesto il progetto proposto dallo studente Alberto Tonelli ambiva a rendere nuovamente fruibile porzioni della diga tramite tre azioni principali. La realizzazione di un percorso galleggiante composto da moli metteva in comunicazione porzioni della diga, la casa matta e, tramite un salto di quota, permetteva di avvicinarsi al relitto proponendo un’esperienza estrema. La diga veniva poi resa percorribile per tutto il suo sviluppo grazie a una nuova pavimentazione orizzontale e continua, era prevista infine l’installazione di un sistema di luci lineari che permettevano di visionare la diga da distante anche nelle ore notturne, facendone un elemento di orientamento geografico e familiare.

Il progetto per la diga di Genova interveniva sulla porzione più a levante dell’antemurale, collocata di fronte al quartiere della Fiera del Mare e in dialogo visuale con il Waterfront di Levante, in corso di realizzazione.
In questo contesto, lo studente Emiljano Nokaj proponeva l’inserimento di una funzione terrestre e la sua declinazione in chiave marittima e portuale. Sulla diga nasceva un “boatgrill”, insediamento estremo per il ristoro e la sosta durante i viaggi per mare. L’architettura, integrata nel profilo della diga esistente, era inserita in un sistema più ampio e complesso di attrezzature galleggianti: tre percorsi circolari che, intersecati con il profilo della diga, tracciavano sull’acqua tre aree protette con utilizzi specifici. In questo modo il progetto forniva attrezzature per il rifornimento di carburante e l’ormeggio di piccole e medie imbarcazioni, aree pubbliche di servizio del boatgrill e, al contempo, una zona balneare eccezionale con vista sulla città.

In ultimo, il progetto dello studente Andrea Rebora sul contesto olandese del porto di Rotterdam prendeva in considerazione gli aspetti di temporalità legati alla diga Maeslantkering. Finalizzate alla protezione del porto e della costa dalle inondazioni, le paratoie della massiccia infrastruttura sono azionate da un sistema automatico che si attiva all’innalzamento del livello delle acque. Da un studio sui livelli delle mareggiate sono stati pianificati diversi scenari che incrociano la frequenza di chiusure della diga all’anno con l’incidenza delle mareggiate, sia in termini di tempo che di innalzamento lineare del mare.
È su questi intervalli di tempo e variazioni metriche tra terra e acqua che agisce il progetto ipotizzando la realizzazione di un paesaggio produttivo temporaneo e mutevole. Sul bordo settentrionale del Nieuwe Waterweg è installato un sistema di piattaforme galleggianti che ospita orti botanici con tre tipi di coltivazioni locali. Nello scenario standard l’orto si trova al livello del mare e può ospitare coltivazioni con una lunghezza massima delle radici di 2 metri (barbabietola da zucchero), nello scenario di mantenimento le piattaforme si muovono in modo indipendente e permettono coltivazioni con una lunghezza massima delle radici di 1,2 metri (orzo), infine nello scenario di sicurezza le piattaforme si ritraggono verso la terraferma all’innalzarsi delle acque e possono ospitare piante con radici di massimo 60 cm (patate).

In continuità con il corso “Port-City Architectures. Inclusive and Hybrid Approaches for Land-Sea Settlements” (a.a. 2022/2023, codocenza con Arch. Michele Manigrasso), il corso Coastal Design and Other Extreme Environments continuerà la sua sperimentazione nell’anno accademico 2024/2025 sul tema “Operative Machines. The Port Grammar”.

LINK al Syllabus del corso 2024/2025
https://corsi.unige.it/en/off.f/2024/ins/81265

 

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