Elbphilarmonie, Amburgo. Herzog & de Meuron. L’Architettura può ancora volare

di Danilo Sergiampietri

Per chi ha studiato architettura negli anni ’80 ed ha iniziato a lavorare negli anni ’90, ripensandoci adesso, c’è stato un lungo periodo di incertezza progettuale. L’immaginario post moderno su cui si erano allenati occhi, mente e mano disegnante è crollato in un attimo, il mondo simmetrico ed iper colorato rappresentato iconicamente dagli anni di direzione Mendiniana di Domus è sembrato subito fuori luogo, eccessivo e superato.

La vera rottura, la vera neo avanguardia, era evidentemente il cosiddetto decostruttivismo. Cominciavano a vedersi i primi disegni folli di Zaha Hadid, Odile Decq, Coop Himmelb(l)au, Libeskind, tutti architetti che avrebbero poi costruito edifici importanti ed, alcuni, anche diventati stelle internazionali dell’architettura. La decostruzione, l’esplosione e la frammentazione della forma erano però difficilmente immaginabili in un paese così legato al passato come il nostro e soprattutto in un ambito territoriale periferico, ostico e fragile come la Liguria, dove è già difficile pensare di costruire qualcosa, figuriamoci decostruire.

Piano, piano, senza proclami e senza nessun trionfalismo, negli anni ’90, si cominciarono a vedere alcuni progetti realizzati da una coppia di architetti svizzeri con studio a Basilea: Jacques Herzog e Pierre de Meuron, entrambi nati nel 1950. Il loro era un modo sostanzialmente diverso di concepire l’architettura: forme molto semplici, essenziali, minimaliste; nessun citazionismo storico; il tentativo di integrarsi al contesto urbano; l’utilizzo di pochi materiali e colori, anzi, il tentativo estremo e nuovo di utilizzare un solo materiale ed un solo colore, quello dato dal materiale scelto. L’elemento più importante dell’architettura, nella loro visione, stava diventando l’involucro esterno, la “pelle”. La loro narrazione, ora lo sappiamo, ha avuto successo, da una ventina d’anni lo studio Herzog & de Meuron è forse il più importante del mondo ed il tema della “pelle” dell’architettura è diventato imprescindibile per tutti noi progettisti.

Aprile 2024, un viaggio di studio in Germania del nord e Danimarca per capire meglio e approfondire l’architettura dei paesi nordici che sta avendo così tanto successo. Prima di tutto la nuova star mondiale, Bjarke Ingels con i suoi BIG, ma poi anche Snøhetta, 3XN, Cobe e molti altri da noi meno conosciuti ma che costruiscono molto come Lundgaard & Tranberg.

Tutto è estremamente suggestivo, innovativo, sperimentale, a volte anche troppo, ma alla fine del viaggio c’è la sensazione che un edificio in particolare svetti sopra tutti gli altri, sia di un livello superiore, è la Elbphilarmonie di Amburgo. Forse, allora, i più bravi sono ancora loro, gli svizzeri, Herzog & de Meuron.

La Elbphilarmonie vola sopra la città di Amburgo, è poggiata sopra un blocco compatto in mattoni esistente, un ex magazzino portuale e ne riprende fedelmente la sagoma per poi slanciarsi verso il cielo con una serie di pennacchi che ricordano quelli della filarmonica di Scharoun a Berlino.

Anche qui il materiale scelto è uno solo, questa volta il vetro, scelta rischiosa perché utilizzata già migliaia di volte. Ma qui il vetro respira, si gonfia e si sgonfia, cambia colore e sfumatura, diventa oblò, riflette continuamente i colori del cielo e dell’acqua nelle varie ore del giorno e dell’anno, diventando esso stesso nuvola, cielo, vela, onda. Una cosa stupefacente.

Il blocco in vetro contiene al suo interno un mondo di funzioni: la filarmonica, due sale concerti, sale conferenze, ristoranti, bar, la terrazza panoramica, appartamenti, hotel, spa, uffici. Le varie funzioni sono difficilmente distinguibili dall’esterno, in una visione post-modernista la forma non segue più la funzione.

Tutto è realizzato in modo perfetto, il budget è smisurato e si vede, la sala interna della filarmonica ha un rivestimento in pietra artificiale microsagomato ad accogliere e riflettere in modo corretto le onde sonore che è quasi inimmaginabile eppure sono riusciti a farlo.

L’architettura può ancora volare alto e diventare il simbolo di una città, di una regione, di una nazione. È quello che spesso viene chiesto dai Paesi emergenti alle archistar mondiali ma può ancora succedere anche in città storiche importanti del vecchio continente europeo e questo è uno stimolo per noi progettisti ad andare avanti tutti i giorni nello studio e nella ricerca del nostro linguaggio, nella ricerca della nostra “pelle”.

Leave a Reply

Your email address will not be published.

Condividi post

Copia link negli appunti

Copy