Beatrice Moretti: “Porto generatore di Città”

(a cura di Paolo Marcesini)

Beatrice Moretti, architetto, è una studiosa e ricercatrice del Dipartimento di Architettura e design dell’università di Genova, membro del Coastal Design Lab, coordinatrice del progetto di ricerca internazionale, finanziato dall’Unione Europea e dal MUR, dal titolo PULSE sul tema dei cluster portuali contemporanei e autrice di Beyond the port city (Jovis 2020). Chi meglio di lei ci può raccontare cos’è oggi un porto, quali sono i suoi confini e come sta evolvendo il concetto di waterfront? E ancora, che differenza c’è tra una città con un porto e una città portuale e in che modo le caratteristiche di una città portuale vengono definite dalla geografia marittima?

Beatrice Moretti è intervenuta nell’ambito di DePortibus, il Festival dei porti che collegano il mondo, invitata da Fabrica che ha coordinato il panel dedicato al rapporto tra porto, città e architettura. Un bellissimo intervento coordinato dal vicepresidente di Fabrica, Daniela Cappelletti e Paolo Marcesini, direttore di Italia Circolare, ispirato da una definizione della docente e architetto Carmen Andriani, che nel 2014 ha fondato il Coastal Design Lab, il laboratorio integrato di architettura e progetto urbano permanente tenuto nell’ambito della Laura Magistrale in Architettura del Dipartimento di Architettura e Design dAD dell’Università di Genova che si occupa dei processi trasformativi di paesaggi costieri, corsi d’acqua urbani, porti, aree produttive o dismesse della costa: “Il patrimonio non è solo ciò che ereditiamo, ma è ciò che diventa patrimonio nel nostro presente […] è la capacità di costruire narrazioni come luoghi di una mitologia collettiva all’interno della quale ogni persona può identificarsi”.

Ecco di cosa abbiamo parlato con Beatrice Moretti.

 

Città con un porto o città portuali?

“La geografia marittima e la geografia economica ci forniscono una sorta di glossario. Parlare di “città-porto” o “città/porto”, di “città del porto” o di “porto nella città” significa usare locuzioni che apparentemente sembrano simili ma che suggeriscono relazioni anche molto diverse tra loro. Questo accade perché il rapporto tra la città e il suo porto crea certamente un legame ma al tempo stesso può generare un conflitto, una dicotomia, una contrapposizione.

Sono molti gli studiosi che osservando l’evoluzione delle città portuali hanno codificato una sorta di subordinazione della città. I porti e le città infatti non suggeriscono quasi mai una correlazione e una corrispondenza ma semmai indicano una dipendenza. Se guardiamo alla storia, spesso gli insediamenti urbani devono la propria forma e la propria origine proprio alla presenza e all’evoluzione di un porto, presenza che nel corso del tempo ne ha diretto e condizionato lo sviluppo e la crescita. Sono città e comunità che sono nate e devono la loro forma architettonica, urbana, morfologica e geografica, insieme alla loro identità sociale, culturale, economica e commerciale, all’evoluzione anche identitaria del porto che le ha generate. Molti hanno parlato di città come aree strategiche al servizio del porto che diventano paesaggio. Una sorta di realtà morfologica terza.

Quello che con il Coastal Design Lab, fondato dalla docente e architetto Carmen Andriani nel 2014 presso il dAD di UniGe, abbiamo studiato in questi anni è proprio l’idea del porto come generatore di città. Nei secoli che hanno preceduto la grandissima frattura globale generata dall’invenzione del container nella metà degli anni ’50 del ‘900, il porto era una sorta di emporio e veniva descritto come un’opera di architettura, addirittura si parlava del porto come di un edificio pubblico. Oggi potrebbe sembrare quasi assurdo, eppure questo tipo di legame con la città e la sua comunità rappresentava una sorta di doppio indivisibile. Questo legame si è interrotto? Il porto ancora oggi è capace di generare città e contesto urbano. Ovviamente dopo la rivoluzione globale dei container, lo deve fare seguendo regole differenti”.

 

Beatrice Moretti con la vicepresidente di Fabrica, Daniela Cappelletti.

 

Il Porto come elemento architettonico e tipologico

“La città che possiede un porto è una categoria urbana distinta. La geografia marittima ed economica ci raccontano che i porti hanno peculiarità sufficienti per formare una categoria urbana distinta e questo è riscontrabile anche a latitudini molto distanti tra loro, non solo in Europa. Dopo il processo globale di containerizzazione i porti hanno iniziato ad assomigliarsi tutti per la presenza standardizzata dei processi imposti dalla nuova logistica universale del commercio e del trasporto delle merci. Carola Hein, architetto e studiosa dell’evoluzione dei porti, li ha definiti specchi gli uni degli altri proprio perché si riconoscono nelle stesse caratteristiche tipologiche. Ancora prima, ne “La città e il porto”, Giancarlo De Carlo, tra i primi a sperimentare e applicare in architettura la partecipazione da parte degli utenti alle fasi di progettazione, parlava dei caratteri tipologici delle città portuali che provengono dalla morfologia infrastrutturale, una grammatica specifica riconoscibile dalla presenza ricorrente delle gru, dei depositi dei granai e dalla lunghezza delle banchine. Le città portuali trasferiscono, traducono e assorbono queste caratteristiche facendone una tipologia architettonica terza. Per questo non si possono progettare i porti con le regole tipiche della formazione urbana, perché ne hanno di proprie ed è necessario comprenderle e rispettarle”.

 

Frontiera del porto

“Il porto è un patrimonio di confine, così è stato definito dal lavoro di ricerca e progetto del Coastal Design Lab. Esistono dei limiti amministrativi che sono stabiliti dalle autorità di sistema portuale. Limiti che spesso coincidono con un territorio estremamente complesso. Perché la frontiera del porto non è una semplice divisione e una linea tracciata su una mappa. In alcune città come Genova è abitata prevalentemente da infrastrutture, in altre città è un luogo di passaggio in cui si solidifica un patrimonio fatto di architetture industriali, silos, magazzini e depositi, che convivono insieme ad aree ibride, usate con temporalità diverse, che vanno a completare un paesaggio eterogeneo e variegato, aree che sono piene o vuote, mutevoli e flessibili, tangibili e intangibili, aperte o chiuse. Il confine del porto è un patrimonio sempre più difficile da definire. Molti studiosi hanno parlato dell’impossibilità di dare un confine all’hinterland proprio perché nella contemporaneità governata dalle regole della logistica dei container questa linea è diventata extraterritoriale e talvolta extraregionale, una linea immateriale spesso intangibile che definisce nuove regole spazio temporali, che si deve adattare continuamente alla flessibilità e che per questo ha bisogno di architetture industriali altrettanto flessibili”.

 

Come la pianificazione strategica comprende il concetto di waterfront e come questo si sta evolvendo.

“Il waterfront per come viene generalmente inteso è una porzione di porto che è stata dismessa e che per questo viene riqualificata. Nel caso di Amburgo, Genova, Glasgow, Barcellona, tutti i waterfront realizzati discendono dal modello Baltimora realizzato negli anni 60, prevalentemente nei porti nord-americani. In quella città una porzione significativa del fronte del porto, con il cambiare delle modalità dei traffici e della produzione, si stava degradando. Il fondale era troppo basso, le navi avevano bisogno di acque più profonde, inevitabilmente quelle aree venivano dismesse, gli stabilimenti industriali abbandonati, il paesaggio in poco tempo appariva degradato e desolante. Nasce così il progetto dell’Inner Harbor di Baltimora che ha portato alla realizzazione di codici e modelli di intervento standardizzati che la letteratura chiama Baltimore Model. Oggi Inner Harbor è il cuore della città, custode della tradizione del suo patrimonio industriale e marittimo e ospita la maggior parte delle attrazioni turistiche e, di conseguenza, i suoi turisti. Il modello, considerato di successo, è stato copiato, esportato e applicato in numerosi porti americani ed europei, da Genova e Glasgow ai Docklands londinesi. Questo trasferimento massiccio ha però messo in crisi il Baltimora Model, quello che veniva realizzato ovunque era un progetto standardizzato che andava spesso a trasformare un’area che era stata occupata da attività operative e lavorative in aree pubbliche con una funzione basata esclusivamente sul turismo e la fruizione del tempo libero. Anche se alcuni casi di waterfront hanno avuto molto successo, il rapporto che hanno ricostituito non è quello tra la città e il porto, ma tra la città e il mare, creando una sorta di edulcorazione del porto.

Questo tipo di approccio ha alimentato la convinzione che per intervenire in queste aree di confine l’unica soluzione fosse quella di rimuovere il porto, come se si trattasse di una infrastruttura nociva invece di immaginare un altro tipo di progetto, una interfaccia generativo capace di dialogare in maniera positiva con la città e la sua comunità. Non più un risarcimento e una compensazione, ma una vera coesistenza. Nascono così nuovi modelli a Rotterdam e Copenhagen, e non solo”.

 

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