Stefano Boeri “I porti luoghi del lavoro e della sostenibilità”

(a cura di Paolo Marcesini e Elena Sacchelli)

Il porto prima di tutto è lavoro. Poi è architettura, urbanistica, paesaggio, pianificazione strategica, cura del territorio. Il porto è anche una città e le persone che la abitano, definisce il rapporto tra pubblico e privato, tra l’essere luogo della produzione e paradigma dell’identità. Il porto racconta il mare, rappresenta un confine e descrive una frontiera. Il porto soprattutto è simbiosi tra uomo e natura, per questo deve essere sostenibile e circolare, ridurre il suo impatto ambientale, creare risorse senza consumarne. Per questo il porto è sinonimo di futuro.

E poi ci sono i nostri porti, quelli del Mediterraneo, che sono lo specchio della nostra identità culturale. È stata una bellissima esperienza e una giornata davvero stimolante quella che sabato 11 maggio, nell’ambito di DePortibus, il Festival dei porti che collegano il mondo, ci ha visto protagonisti del convegno moderato dal direttore di Italia Circolare Paolo Marcesini.

All’incontro hanno preso parte la nostra vicepresidente, l’architetto Daniela Cappelletti, il direttore di Domus Walter Mariotti, l’architetto e urbanista Stefano Boeri e la ricercatrice universitaria e architetto Beatrice Moretti, che ha presentato il cluster Pulse dedicato all’evoluzione urbanistica degli scali commerciali italiani e il #COASTALDESIGNLAB, che si occupa dei processi trasformativi di paesaggi costieri, corsi d’acqua urbani, porti, aree produttive o dismesse della costa.

Ecco di cosa abbiamo parlato con Stefano Boeri.

 

I porti come luogo della narrazione e il container come matrice della rivoluzione globale del traffico delle merci.

“I porti sono luoghi dell’immaginario letterario e cinematografico. Nei romanzi di Georges Simenon ad esempio i porti di mare e di fiume erano luoghi dove c’era ancora una commistione molto forte tra la vita quotidiana delle persone e le loro attività economiche, dove si lavorava soprattutto per lo scarico e il carico delle merci sfuse. Erano ambienti di lavoro e di vita. Cito l’atmosfera di quei romanzi perché in quegli anni avviene un cambiamento radicale. L’utilizzo dei container infatti ha cambiato letteralmente il mondo del traffico delle merci. Qualcuno ha paragonato questa novità alla diffusione di internet, ad una rivoluzione economica, culturale e sociale capace di provocare una frattura profonda, un prima e un dopo. Stiamo parlando infatti di due fenomeni globali, i container e il web, che hanno avuto più o meno lo stesso impatto: cambiando le relazioni commerciali hanno cambiato il paesaggio dei territori di scambio di tutto il mondo. Possiamo dire che la globalizzazione come l’abbiamo conosciuta nel nostro tempo nasce proprio con l’invenzione di container. Molti porti si vedono improvvisamente privati della loro funzione principale di luoghi dello scambio commerciale tradizionale. Uno scambio fatto di carico e scarico, di merci che si toccavano e si vedevano, che dovevano essere trattate, usate, che stabilivano una connessione fisica e identitaria con la comunità produttiva della città. Una privazione che non è ancora stata del tutto recuperata. Questo è un argomento molto importante che riguarda il modello di governance e sviluppo delle autorità portuali e delle città stesse. Una sfida ancora aperta. Voglio essere chiaro. Non può il turismo da solo dare la risposta risolutiva a questi problemi: un porto non può essere solo una destinazione. Per sua natura è un punto di incontro tra flussi economici che arrivano da mondi diversi e deve necessariamente essere un luogo di lavoro, di incontro, di scambi di culture diverse. È una sfida apertissima e decisiva anche in una città come La Spezia. Tra le città di porto è arrivate dopo a porsi questo problema ma grazie alla tecnologia e all’innovazione ha oggi maggiori opportunità di risolverlo in modo nuovo e competitivo.

 

Perché l’arrivo del container cambia così radicalmente la natura dei porti italiani e del Mediterraneo.

“C’e una storia peculiare specifica dei porti e delle città portuali in Italia, molto simile a quella di altre città dell’Europa del sud. Sono città nate insieme ai loro porti, intrinsecamente legate al traffico commerciale che per secoli hanno vissuto e prosperato come piattaforme logistiche. Una storia bellissima che ha plasmato il paesaggio delle coste italiane, una storia che a un certo punto l’arrivo della globalizzazione ha cambiato radicalmente. C’è una data che determina il cambiamento radicale del porto. Sto parlando del 1956 e dell’invenzione dei container che ha cambiato in tutto il mondo, ma soprattutto nel Mediterraneo, il rapporto tra porto e città. Con l’arrivo dei container i porti avevano bisogno di panchine e retro banchine immense per stoccare scatoloni di enormi dimensioni incompatibili con lo spazio ridotto dei porti urbani. C’è un momento in cui i porti città vanno in crisi e questo penalizza soprattutto i porti europei del Mediterraneo rispetto a quelli del sud est asiatico e del nord Europa. Questa frattura fa parte della storia e dell’evoluzione dei nostri porti”.

 

Quanto conta il mare nella sua formazione personale e professionale.

“Crescere vicino al mare è qualcosa di unico. Non c’è un mare ma ci sono tanti mari diversi. Io sono particolarmente legato a quello del Levante e del Ponente ligure e a quello della Sardegna. Lavorare nei porti mi ha spinto a guardare al mare come risorsa e opportunità, un modo di essere che mi ha arricchito tantissimo, personalmente e professionalmente. Siamo soliti pensare ai porti attraverso dei luoghi comuni, territori di margine, periferici, chiusi, nascosti. Invece sono luoghi centrali dove avviene l’incontro tra i flussi in movimento di terra e acqua, cerniere strategiche che dovrebbero essere centrali nel dibattito della politica italiana”.

 

 

I porti spesso devono essere rigenerati. Qual è il ruolo dell’architettura? L’esempio di Villa Mediterranée a Marsiglia.

“Il progetto del porto di Marsiglia risale al 2014, quando era capitale europea della cultura. È stato realizzato in un momento in cui stavamo lavorando oltre che sull’architettura e l’urbanistica anche su questioni legate alla geopolitica del mare; ero molto colpito da quanto stava accedendo negli ultimi decenni nel Mediterraneo quando in un contesto di “continente liquido” cominciavano a capire che il nostro stava diventando un “mare solido”, duro, ostile dove le rotte dell’immigrazione erano diventate vere autostrade del dramma, rotte di morte, di abbandono e dimenticanza, guardate in un modo disattento e distratto. In questo contesto ci viene in mente di diversificare il ruolo del mare all’interno dal concetto stesso di architettura, abbiamo pensato a un edificio diverso, che non volge le spalle al mare ma lo ingloba. La cosa particolare e anche bizzarra di questo progetto è una parte centrale molto importante che scende sotto il livello dell’acqua e che abbiamo pensato di collegare direttamente al mare. Ancora oggi ci si può arrivare in barca. Villa Mediterranée é stata per diversi anni il luogo degli studi sull’immigrazione. È stata una scelta ideale molto forte, radicale di alto valore simbolico: un luogo fisico del pensiero che accettava di convivere al suo interno con il mare, studiava, analizzava e comprendeva i flussi di immigrazione portati dal mare “solido” e lo faceva in maniera coraggiosa, affrontandoli senza nasconderli. Successivamente l’amministrazione regionale proprietaria dell’edificio ha deciso di cambiare la natura e l’attività di questo edificio trasformandolo in un museo archeologico molto particolare, unico al mondo: nella parte sottacqua dell’edificio è costruita una grotta che è l’esatta ricostruzione filologica di una grotta esistente lungo la costa di Marsiglia che sta per essere sommersa definitivamente dalla crescita incontrollata del livello dell’acqua. Questa grotta oggi è diventata uno dei luoghi più visitati di Marsiglia, un simbolo legato alla transizione ecologica e al cambiamento climatico, dimostrando che a volte l’architettura sa assorbire una trasfigurazione delle condizioni iniziali fino a un cambiamento totale della sua destinazione d’uso originale”.

 

Cosa resta dei progetti quando non conservano le loro peculiarità originarie e come possiamo dare comunque valore al costruito. L’esempio del porto della Maddalena.

“Così come dovremo essere capaci di accogliere le traiettorie di vita dei nostri figli, lo stesso dovremmo farlo anche con le nostre architetture. Questo succede quando un progetto ha molto successo o molto insuccesso e diventiamo noi architetti gli unici che si prendono cura di un insuccesso. Questo è successo al porto della Maddalena interessato da un progetto di rigenerazione dell’arsenale della Marina Militare che avrebbe dovuto ospitare il G7 successivamente spostato a l’Aquila. Quell’area era stata progettata per avere vita anche dopo i tre giorni del summit e diventare un luogo di lavoro, commercio diportistica e turismo. Poi vennero scoperte truffe e scandali e il porto della Maddalena non aprì mai. Non venne neanche di fatto mai inaugurato e le strutture non sono state nemmeno collaudate. Molto semplicemente sono rimaste lì, inutilizzate dal 2009. Mi sono continuato ad occupare di quel porto non solo per ragioni affettive, ma soprattutto perché è ancora una struttura potenzialmente molto interessante che anticipava quelle scelte di sostenibilità che oggi sono normali ma che allora non lo erano. Quella della Maddalena è una architettura resiliente. Purtroppo alcuni edifici pur ancora sani nella loro struttura, sono stati logorati dal tempo e dalla mancanza di manutenzione. Oggi chi passa davanti a quegli spazi si trova davanti un’immagine desolante. Se il corpo di un progetto architettonico viene scarnificato e abbandonato diventa difficile non solo pensare a nuove destinazioni e nuove attività. Non possiamo pensare nemmeno a nuovi sentimenti e condivisioni. Semplicemente muore”.

 


Esistono delle caratteristiche che possono definire il porto mediterraneo?

“L’essere avvinghiato a un borgo, a una citta, per 365 giorni all’anno. Dove non c’è vita il porto perde l’80% delle sue potenzialità. Il tema vero, quello principale, il punto di partenza è pensare ai porti come luoghi del lavoro. Oggi possono ospitare anche centri di ricerca, innovazione e sviluppo, possono diventare centri culturali per il lavoro intellettuale e hub per destinazioni turistiche. Ma soprattutto devono accogliere la sfida della transizione ecologica e accogliere il verde. Nei porti del sud Europa ad esempio, il ruolo dell’ombra è diventato fondamentale per ospitare milioni di visitatori. Questa dell’ombra è una sfida che stiamo portando avanti anche con il nostro studio, lavorando a Cagliari, Renzo Piano lo sta facendo a Genova e altri architetti ci stanno lavorando in tutto il mondo. La mission oggi è portare ombra e verde nel porto”.

 

La simbiosi tra uomo e natura.

“Oltre a quella per i porti, la mia altra ossessione è pensare alla natura vegetale non come un elemento puramente decorativo e ornamentale, ma come a una componente essenziale dell’architettura. Credo sia necessario capire che abbiamo bisogno di architetture che sin dall’inizio vengano pensate per ospitare insieme la vita degli umani a quella delle piante, capaci di trattenere l’acqua, di assorbire anidride carbonica, di produrre ossigeno ed energie rinnovabili, luoghi del benessere psicofisico di chi le abita e che ci aiutino a sviluppare meglio le nostre difese immunitarie. Questa è l’architettura che trova l’equilibrio della sostenibilità”.

 

Il mare come risorsa.

“Il mare è una risorsa fondamentale per la sostenibilità del pianeta. Le città del mondo occupano poco più del 3% della superficie delle terre emerse. Ma questo 3% produce quasi il 75% dell’anidride carbonica che genera il surriscaldamento globale. Oceani e foreste insieme consentono alla specie umana di sopravvivere. Per questo il mare è una risorsa straordinaria che abbiamo tutti il dovere di proteggere. E il porto è un ottimo punto di partenza”.

 

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