Un Archispritz su arte e architettura: Vito Acconci

di Danilo Sergiampietri

Un Archispritz sull’Arte, anzi sulla sottile ed instabile linea di confine che divide l’Arte dall’Architettura.

Ci sono molti artisti che iniziano il loro percorso dall’architettura, soprattutto in Italia questo è piuttosto frequente. Da una parte c’è la poca fiducia nelle Accademie di Belle Arti, dall’altra l’idea che quella dell’architetto sia una figura con un futuro professionale più sicuro ed un certo margine di creatività. C’è poi lo scontro con la dura realtà, in un paese dove è estremamente difficile ed osteggiato costruire qualcosa di contemporaneo e dove si passa il tempo a districarsi tra burocrazia, normative, vincoli e pareri.

Più difficile che avvenga il contrario. Avveniva di frequente nel Rinascimento quando ad un artista già affermato come pittore o scultore si chiedeva di fare architettura. Il caso più eclatante è notoriamente quello di Michelangelo, ma questo sarebbe un tema troppo complesso da sviluppare e poi a Michelangelo nessuno ha mai chiesto l’anno di Laurea, l’iscrizione all’Ordine o i crediti formativi prima di incaricarlo di progettare San Pietro o il Campidoglio.

Non conosco invece molti artisti contemporanei che abbiano deciso di dedicarsi pienamente all’architettura: quello che lo ha fatto in una maniera più radicale è forse Vito Acconci.

Vito Hannibal Acconci nasce come poeta, nei primi anni ’60, a New York. Sono gli anni in cui il baricentro dell’arte si sta definitivamente spostando dalla vecchia Europa al nuovo continente americano. Le basi delle Avanguardie erano state gettate ancora in Europa, ma poi i regimi totalitari e le due guerre avevano interrotto il percorso e già Duchamp si era trasferito in America da dove aveva proposto, nel 1917, l’opera che ha sostanzialmente cambiato l’approccio contemporaneo all’arte: “Fontana”.

Acconci a New York viene a contatto con le espressioni più sperimentali ed estreme dell’Arte ed in particolare con quelle che annullano del tutto la necessità da parte dell’artista di produrre un oggetto, che sia quadro, scultura o ready-made. Alla fine del percorso di annullamento dell’operazione di realizzazione dell’opera, l’opera stessa non c’è più e l’Artista rimane solo, nudo, con solamente il suo corpo come strumento. Nascono la Performance Art e la Body Art.

Per alcuni anni Acconci si dedica alla Body Art ed oggi viene sostanzialmente ricordato per alcune sue performance. La più famosa è “Seedbed” del 1971: la galleria è completamente vuota e l’artista è nascosto sotto ad una pedana, solo, davanti ad un microfono ed una telecamera a masturbarsi per ore fino allo sfinimento, il pubblico non lo vede, sente solo i suoi gemiti e le sue parole. Si tratta di un’operazione estrema che mette alla prova la resistenza fisica ed il coraggio dell’artista di spingersi oltre i propri limiti. Negli stessi anni operazioni simili venivano portate avanti anche Gina Pane e Marina Abramovich, con un punto di vista prettamente femminile. Rimasto da solo con il proprio corpo l’artista ha comunque ancora a disposizione alcune risorse, i propri fluidi corporei, spesso il sangue, con il suo splendido colore rosso. E nonostante tutto forse si tratta ancora di pittura.

Al di là dell’importanza storica e della durezza della performance, l’essenzialità con cui viene trattato lo spazio della galleria, il pavimento in legno che si inclina e diventa pedana rialzata visto oggi sembra un gesto architettonico preveggente, un tema con cui noi progettisti ci scontriamo continuamente, quello spazio fluido che diventerà il fulcro intorno al quale graviterà la seconda vita professionale dell’artista/architetto.

Da un certo punto in poi Vito Acconci inizia infatti ad occuparsi esclusivamente di architettura, abbandona del tutto l’arte e soprattutto la body-art e negli anni ’80 fonda a New York l’Acconci Studio in cui lavora un team di ricercatori e progettisti. Lo Studio si occupa di design, allestimento, spazio urbano, landscape, architettura, urbanistica, con una visione interdisciplinare sempre sperimentale, provocatoria e preveggente, mai banale.

Tra i progetti realizzati sono certamente da ricordare la Murinsel di Graz, una piattaforma artificiale polifunzionale a forma di conchiglia costruita miracolosamente nel bel mezzo del fiume Mura a Graz in Austria ed il progetto del centro culturale Storefront for Art and Architecture realizzato nel 1993 a New York in collaborazione con l’architetto Steven Holl: una galleria d’arte, design ed architettura con una strana forma triangolare ed una dimensione interna minima. Il progetto consiste sostanzialmente in una ingegnosa facciata di pannelli che ruotano e mettono in comunicazione interno ed esterno creando in tal modo uno spazio ibrido in cui la dimensione privata e quella pubblica si fondono.

Nel 2002 lo Studio Acconci partecipa al concorso per Ground Zero, il vuoto lasciato dalla caduta delle Twin Tower. La proposta è concettuale e provocatoria come sempre, una torre gigantesca traforata come se fosse stata trapassata da una miriade di bombe o meteoriti, una sorta di torre pre-esplosa. Il concorso è stato vinto da Libeskind, ma l’immagine proposta da Acconci non è andata del tutto persa e ricorda molte torri che si stanno costruendo od ultimando in questi ultimi anni.

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